Montegrano: Il Villaggio delle Classi Invisibili
Un microcosmo di disuguaglianza e immobilismo sociale dove le apparenze celano fratture profonde: il caso Montegrano raccontato tra status, fatalismo e sogni infranti.

Buongiorno ai nostri lettori, oggi continueremo la sezione dedicata agli studi di Banfield focalizzandoci in particolare sulla struttura sociale del paese di Montegrano (Chiaromonte), della quale si parla nel capitolo 4.
Montegrano, specchio di un'Italia contadina del dopoguerra, è un villaggio apparentemente tranquillo, dove non esplodono rivolte né si agitano rivendicazioni, ma in cui l'ordine sociale è rigidamente diviso e interiorizzato da ogni individuo. La sua stratificazione sociale si articola in tre classi distinte: contadini, artigiani e commercianti, e una piccola élite di signori. Tuttavia, dietro questa semplice composizione si cela un complesso sistema di diseguaglianza, fatto di deferenze, frustrazioni e impossibilità di ascesa.
I contadini, che formano oltre due terzi della popolazione, occupano il gradino più basso della scala sociale. Il loro lavoro agricolo è stigmatizzato, il loro linguaggio giudicato rozzo, la loro presenza spesso ridicolizzata dai cittadini urbani. Gli artigiani e i commercianti, pur avendo un'attività diversa dalla terra, condividono con i contadini molte insicurezze, sebbene godano di uno status leggermente superiore. Infine, la classe superiore – i cosiddetti "signori" – vive al riparo dal lavoro manuale, contraddistinta da titoli onorifici, istruzione e un sistema di relazioni che rafforza la propria posizione dominante.
A Montegrano, l'identità sociale è ereditaria: il titolo di "Don" o "Donna" non si conquista, si eredita. Questo sistema, più feudale che meritocratico, è protetto da un patto non scritto tra le famiglie nobili, che mantengono la pace tra loro per proteggere lo status acquisito. Eppure, la tranquillità di superficie non nasconde le tensioni latenti.
Le celebrazioni collettive, come le danze o le processioni religiose, sembrano unificare le classi sociali. Ma la partecipazione non basta a colmare il divario: nei momenti chiave, emerge l'umiliazione del contadino, l'ostentazione del signore e il disagio dell'artigiano che oscilla tra i due mondi. La mobilità sociale è rara e precaria. Anche le famiglie che riescono temporaneamente a elevarsi vivono con la paura costante di "cadere in scala sociale da una generazione all'altra."
È un sistema fragile e claustrofobico, in cui ogni miglioramento è effimero. Come scrive Banfield, le famiglie investono non per costruire un futuro collettivo, ma per difendere il presente familiare. L'istruzione è un lusso, specialmente per le famiglie numerose, e spesso il figlio primogenito diventa l'unico a cui vengono destinate risorse e speranze, lasciando gli altri in balia del destino.
Il mondo urbano rappresenta un miraggio: più opportunità, maggiore prestigio, ma anche perdita di radici. Le famiglie della gentry tentano di stabilire legami con le città, ma nel farlo contribuiscono alla disgregazione dei legami comunitari del villaggio. A ciò si aggiunge il peso delle relazioni clientelari: il contadino che si presenta con un dono in mano al signore non lo fa per generosità, ma per ottenere ascolto, per mendicare attenzione.
Banfield descrive questo sistema come "un fitto muro di malinteso e sospetto" tra le classi. Anche quando i rapporti sembrano cortesi, la distanza è incolmabile: non è solo economica, ma linguistica, simbolica, emotiva. La vergogna e il senso di inadeguatezza perseguitano il contadino anche quando si avvicina a una posizione migliore. In questo quadro, anche figure neutrali come medici e preti sono prigioniere di una dinamica classista che inibisce il dialogo vero.
La fatalistica domanda "Chi sa delle cose che hanno a che fare con la creazione del mondo?" non è solo ignoranza, ma una forma di rassegnazione. Se nulla può cambiare, allora tanto vale pensare solo a sé stessi. Questo è il cuore del familismo amorale: un sistema in cui ogni individuo è solo, e l'unica rete di sicurezza è la famiglia. Nessuna fiducia nel pubblico, nella comunità, nelle istituzioni.
Eppure, tra le pieghe di questa realtà, esistono gesti di resistenza silenziosa: un contadino che lotta per mandare un figlio a scuola, un artigiano che insegna un mestiere a un giovane apprendista, una donna che rifiuta il silenzio della subordinazione. Sono tentativi fragili, ostacolati da un sistema che non premia la volontà, ma il lignaggio.
Montegrano è allora un teatro dell'immobilismo sociale, dove l'aspirazione si scontra con la realtà e i sogni si consumano nella paura di cadere più in basso. È un luogo in cui il riconoscimento sociale è uno spettacolo di scambi rituali, non di merito. E in cui la distanza tra ciò che si è e ciò che si potrebbe essere resta incolmabile, generando disillusione, ambivalenza, e un senso diffuso di frustrazione.
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Scritto da Anna Elisa Policastro.