Antropologi e Mezzogiorno: sguardi a confronto tra studiosi italiani e stranieri
Nel primo di due articoli dedicati all'opera di Maria Minicuci, esploriamo come l'antropologia ha osservato il Sud Italia dal secondo dopoguerra agli anni Duemila, mettendo a confronto approcci, pregiudizi e interessi di ricercatori italiani e stranieri.

Buongiorno cari lettori! In questo articolo inauguriamo una sezione dedicata a "Antropologi e Mezzogiorno", un saggio della professoressa Maria Minicuci pubblicato nel 2004 sulla rivista Meridiana. Studiosa di Etnologia delle culture mediterranee, la Minicuci ha dedicato la sua carriera alla comprensione della cosiddetta "Questione Meridionale", analizzando in particolare l'evoluzione dello sguardo antropologico sul Sud Italia.
Oggi ci concentreremo su uno dei passaggi centrali dell'opera: il confronto tra l'approccio degli antropologi italiani e quello degli studiosi stranieri nello studio del Mezzogiorno.
Sud o Mezzogiorno?
La Minicuci parte da una differenza terminologica tutt'altro che banale. Gli antropologi italiani parlano di Mezzogiorno, evocando un concetto carico di significati politici e storici. Gli stranieri, invece, preferiscono il più generico "South Italy", riducendo spesso l'area a una mera entità geografica. Questa imprecisione porta a generalizzazioni: studiare un villaggio diventa, per molti, sufficiente per comprendere l'intero Sud.
Un esempio emblematico è il lavoro di Maraspini su Calimera, in Puglia. Secondo lui, i villaggi del Sud condividevano strutture e dinamiche talmente simili da risultare quasi intercambiabili. Un'idea contestata da studiosi come Alberto Mario Cirese, che metteva in guardia contro la rappresentazione del Mezzogiorno come un'entità omogenea, esclusivamente rurale e immobile nel tempo.
Contadini e stereotipi: il peso degli approcci stranieri
Se per gli antropologi italiani il Sud era il punto di partenza per poi analizzare il mondo contadino, per molti studiosi stranieri il processo era inverso: partivano dalla civiltà contadina per ricostruire un'idea di Sud. Questa visione ha spesso portato a stereotipi consolidati e poco contestati.
Anche quando si moltiplicano le ricerche — da Pitkin a Sermoneta, a Galt a Pantelleria, fino ai Miller e a Cancian in Campania — il punto di vista resta sorprendentemente uniforme. Come sottolinea la Minicuci, è mancato un dialogo tra studiosi, e ogni autore finisce per replicare il lavoro dei predecessori, rafforzando immagini già sedimentate invece di problematizzarle.
"Un incontro mancato"
Maria Minicuci, richiamando l'antropologo Jean-Loup Amselle, osserva che molti studi stranieri producono "mappe" parziali e omogenee, che trascurano le sfumature e la varietà reale del Mezzogiorno. La stessa discussione critica avviata nel 1975 da Douglass sui lavori di Davis e Brogger testimonia una presa di coscienza: la società meridionale non può essere ridotta al solo mondo contadino.
A questa osservazione risponde ironicamente Vinigi Grottanelli, etnologo italiano, che ammette di conoscere bene il clero e i grandi proprietari, ma di sentirsi impreparato a scrivere una monografia su di loro. Da qui la domanda provocatoria: "Fin dove si estendono le frontiere dell'antropologia?"
La ricerca del confronto
Non mancano, per fortuna, casi virtuosi. George Peck e Friedmann, ad esempio, cercarono un dialogo autentico con gli studiosi italiani, adottando metodi più riflessivi e contestuali. Banfield, con il suo celebre studio su Montegrano (in realtà Chiaromonte, in Basilicata), divenne un punto di riferimento per il confronto tra le due tradizioni.
Obiettivi e metodi divergenti
A separare italiani e stranieri non sono solo le interpretazioni, ma anche le finalità e i metodi. Gli italiani erano più interessati ai processi teorici, alle stratificazioni culturali e ai rapporti di potere interni al Mezzogiorno. La loro ricerca si svolgeva spesso in tempi brevi, privilegiando l'analisi di eventi emblematici rispetto alla lunga permanenza sul campo.
Gli stranieri, invece, spesso adottavano il modello malinowskiano: mesi o anni vissuti nei villaggi, osservazioni partecipanti, ma anche uno sguardo che, paradossalmente, si cristallizzava su un'idea "pura" e uniforme di civiltà contadina, finendo per appiattire la complessità del Meridione.
Il lavoro della Minicuci è un esempio prezioso di ricostruzione critica del pensiero antropologico. Con rigore, ma anche con passione, l'autrice ci guida tra nomi, scuole e metodi per far emergere quanto il Mezzogiorno sia stato — e sia ancora — oggetto di sguardi plurali, a volte contrapposti, spesso incompleti.
Vi ringraziamo per l'attenzione e come sempre vi aspettiamo al prossimo articolo!
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Scritto da Matilde Perna.